Saint Seiya Hades

Il cielo presso gli antichi popoli nordeuropei: Celti e Vichinghi

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Aaron-Hades
view post Posted on 2/7/2009, 15:24     +1   -1




Introduzione
La storia delle origini della nostra civiltà che studiamo normalmente nei libri di Storia ci parla di grandi contributi alla sua evoluzione da parte di culture affascinanti e complesse, quali quella egizia, quella greca e quella latina; di esse conosciamo innumerevoli informazioni che ci sono giunte attraverso un percorso di secoli di traduzioni, interpretazioni e studi, e che hanno costituito il prezioso sostrato sul quale si è fondato lo sviluppo della civiltà occidentale.
Esiste però, certamente, anche un grande patrimonio sommerso di conoscenze tradizionali, rimasto nascosto per millenni perché usanze e superstizioni volevano che restassero circoscritte a una ristretta cerchia di persone (i sacerdoti del culto religioso ad esempio), e che nessun testo scritto ha tramandato direttamente. L’esistenza di questo patrimonio emerge di solito da racconti di antichi testimoni, riportati in maniera indiretta da qualche cronista, o dagli scavi archeologici che portano alla luce oggetti e luoghi “muti” solo apparentemente.
Lo studio della disposizione di antiche costruzioni non provviste di alcuna iscrizione illustrativa in qualche alfabeto noto, ad esempio, ci parla del nostro passato remoto proprio come i frammenti di una mandibola di dinosauro raccontano al paleontologo ciò di cui si nutriva un animale preistorico, e quindi le sue dimensioni, la sua struttura fisica, il suo modo di muoversi o altro.
Si è così compreso come, mentre i popoli antichi a noi più noti costruivano e consolidavano il loro patrimonio etnico sul bacino del Mediterraneo, ed anche in un epoca di gran lunga antecedente, nell’interno del Vecchio Continente e nelle fredde e inospitali regioni del Nord, esistesse già e proliferasse una cultura composita, prodotta da incontri, o scontri, di etnie diverse, resa solida da una antica tradizione di osservazione e di stretto rapporto con la natura. Quando Giulio Cesare conquistò la Gallia, una parte di quel mondo “diverso”, con il quale Greci e Romani avevano avuto nei secoli precedenti pochi ma fruttuosi scambi commerciali, cominciò ad esercitare fascino ed influenza sulla cultura classica greco-romana: tuttavia, nonostante i resoconti di Cesare nei suoi “Commentarii De Bello Gallico” e di Tacito nella “Germania”, molti aspetti dell’antica civiltà dei Celti è rimasta misteriosa, come misteriosa resta, tutto sommato, ancora la loro origine.

I “templi megalitici”
Nonostante abbiamo già fatto, dunque, riferimento ai Celti e alla conquista della Gallia da parte di Giulio Cesare nel I secolo a. C., la storia che vi vogliamo raccontare ha un’origine ancora più antica, datata alcune migliaia di anni prima della nascita di Cristo (tarda epoca neolitica), quando antiche popolazioni “preceltiche” dell’Europa settentrionale (Bretagna e isole britanniche), trasportarono enormi massi allungati pesanti decine di tonnellate, li squadrarono pazientemente e con un complesso sistema di leve, ancora oggetto di studi, li issarono in posizione verticale, piantandoli nel terreno in buche opportunamente approntate affinché essi non sprofondassero, e allineate in schemi geometrici precisi.
Quando migliaia di anni dopo alcuni archeologi inglesi, incuriositi dalla regolarità della disposizione degli allineamenti di grandi pietre (“megaliti” dal greco mega grande e lithos pietra) cominciarono ad occuparsi del loro possibile significato, ed in particolare della imponente struttura megalitica di Stonehenge nella piana di Salisbury nel Sud dell’Inghilterra, risalente al 2000 a. C. circa, si accorsero che gli assi di tali strutture risultavano allineati con alcuni punti dell’orizzonte di particolare importanza dal punto di vista astronomico: fu il reverendo William Stukeley che per primo notò casualmente che il giorno del solstizio estivo (in cui il Sole sorge e tramonta alla massima escursione a Nord e raggiunge la massima altezza alla culminazione) dalla pietra dell’altare, posta al centro del grande terrapieno circolare su cui si trovano gli enormi megaliti di Stonehenge, traguardando attraverso un grande trilito collocato trasversalmente tra essa e l’ingresso del terrapieno, si vedeva sorgere il Sole in corrispondenza di una pietra oblunga semiaffiorante dal terreno e posta sulla via di accesso al terrapieno stesso in prossimità del suo ingresso (la pietra è detta per la sua forma heell stone o pietra del calcagno).
Da allora nei secoli seguenti nella stessa struttura di Stonehenge ed in altre strutture megalitiche (Carnac in Bretagna, Callanish nelle Ebridi esterne ed altre ancora), furono trovati numerosi allineamenti astronomici, ad esempio con le posizioni del sorgere o del tramontare del Sole al solstizio invernale e agli equinozi, o con le posizioni del sorgere del Sole e della Luna alla massima o alla minima declinazione (quando la Luna raggiunge rispettivamente la massima altezza o la minima altezza sull’orizzonte alla culminazione), o con le posizioni del sorgere di alcune delle stelle più luminose del cielo (Aldebaran, Capella, Sirio).
Queste scoperte dimostrano come l’interesse per i fenomeni celesti per popoli così remoti andasse al di là del semplice stupore di una umanità bambina attonita di fronte alle meraviglie della natura, e abbia potuto dare luogo ad una osservazione sistematica e il più possibile rigorosa, per quanto potesse esserlo all’epoca, al punto da condurli alla produzione di testimonianze di dimensioni titaniche (come Stonehenge o il gigantesco monolito che dominò la baia di Quiberon in Bretagna dal 4000 a. C. fino alla sua distruzione alla fine del XIII secolo in seguito ad un violento terremoto).
Ma perché popoli così lontani nel tempo hanno lasciato tracce del loro interesse per il cielo così imponenti da risultare praticamente eterne?

I Celti e la religione druidica
La risposta a tale quesito è sepolta nel tempo insieme alle tradizioni e alla cultura di quei popoli antichi che nulla ci hanno lasciato per iscritto, ma talvolta la storia l’ha fatta tornare parzialmente alla luce, ad esempio quando, molti secoli dopo in quelle stesse terre il percorso storico di eredi di quelle antiche culture, si è intrecciato con quello di Roma antica, impegnata in un opera di espansione militare e politica che la portò a realizzare uno dei più grandi e potenti imperi della storia.
Per la verità con il nome Celti si indica una realtà composita, prodotta dalla migrazione, avvenuta in ondate successive a partire dal tardo neolitico, di genti proveniente da Oriente, che, dopo aver invaso la quasi totalità del territorio europeo, si innestarono nei ceppi etnici locali, e la cui civiltà scaturì quindi dal miscuglio di una grande quantità di etnie, spesso in seguito a dure guerre di conquista; tuttavia l’occupazione della Gallia (l’odierno territorio della Francia) da parte di Giulio Cesare, che si spinse poi fino all’interno della Britannia, ed la reciproca profonda influenza che si è sviluppata tra la cultura classica latina e la tradizione di quella terra hanno fatto sì che oggi abbiamo un maggior numero di informazioni sui popoli di origine celtica dell’Europa nordoccidentale.
In un duro conflitto svoltosi negli anni tra il 58 e il 51 a. C., dunque, le organizzate schiere romane domarono con difficoltà la strenua resistenza di un popolo fiero, che viveva diviso in piccoli villaggi, lavorando la terra ed allevando bestiame, ma che in battaglia si trasformava in un esercito organizzato di combattenti orgogliosi e temibili. I Romani (tra i quali lo stesso Cesare, che non era soltanto un grande condottiero, ma anche uomo colto ed esperto di arti e scienze) studiarono attentamente quella nuova ma antica cultura, affascinati da essa, e dai loro resoconti storici si ricava l’immagine di un popolo forte e libero, dotato di fantasia e sensibilità ma anche di grande duttilità e capacità di reazione ad ogni difficoltà.
I Romani poi integrarono i Celti nei loro schemi sociali e politici, insegnando loro forme di organizzazione della vita e della società più complesse e tecnologie più elaborate e più efficaci, che necessitavano di leggi scritte per poter avere corso e per poter essere tramandate. Tuttavia la conquista da parte dei Romani è rimasta nell’antica tradizione celtica, soprattutto britannica, come una pagina storica infausta, perché, al di là della sconfitta militare, l’adozione della scrittura come veicolo fondamentale di comunicazione presso quei popoli (alla quale Roma diede un contributo fondamentale), rappresentava l’introduzione di uno schema rigido nel quale non si poteva in alcun modo esprimere la descrizione della natura.
D’altra parte per i Celti la natura non rappresentava soltanto il mondo in cui vivevano ma anche una madre potente, talvolta generosa talvolta crudele, che appariva in mille forme diverse, trasformandosi continuamente dall’una all’altra senza leggi e schemi. Questa visione della natura era presente nella religione tradizionale celtica (prima che essa fosse sincretizzata con il culto cristiano), che non si serviva di immagini sacre di divinità (e tanto meno antropomorfe) nel proprio rituale, proprio perché i Celti ritenevano che le divinità non si potessero rappresentare in alcun modo, essendo loro attributo tale capacità di trasformarsi. È soprattutto per questo che nella religione celtica non esistono divinità solari e lunari o legate ad un unico oggetto o fenomeno naturale.
I Celti, che vivevano soprattutto di raccolta, coltivazione e allevamento, non potevano che venerare, prima tra tutte le divinità, la Grande Madre Terra (“Don”, “Dona”, “Danu” o “Anu” nei diversi linguaggi delle popolazioni celtiche), che risiedeva secondo alcune genti nel suo trono collocato nella costellazione circumpolare di Cassiopea. Essa è considerata progenitrice di tutte le tribù; l’unione della Dea con il dio della tribù celebrata nella mitologia e nel rituale tradizionale rappresentava il legame stretto tra il popolo e il suolo fertile.
La Terra era, dunque, la loro fonte di sopravvivenza e prosperità e tutte le attività umane dovevano essere finalizzate allo sfruttamento delle sue risorse ed i rituali dovevano essere o atti propiziatori o manifestazioni di gratitudine verso di essa. L’osservazione del cielo, delle sue misteriose periodicità e dei fenomeni imprevisti, da sempre sentiti come presagi, acquista proprio per questo un rilievo particolare, perché si sa dai tempi più remoti che è il moto annuale del Sole, che cambia la posizione del suo sorgere e del suo tramontare nel corso dell’anno e la sua altezza massima sull’orizzonte a mezzogiorno, a determinare l’alternarsi delle variazioni climatiche stagionali, e anche perché, studiando la periodica variabilità del ciclo lunare, si può misurare il tempo con maggior precisione, e la misurazione del tempo è una delle più preziose forme di adattamento umano ai mutamenti della natura.
Quella stessa curiosità e quella capacità di riflessione razionale che avevano portato molti secoli prima genti primitive ad allineare file di enormi pietre con punti particolari dell’orizzonte per costruire enormi calendari naturali che ricordassero all’uomo quando si doveva effettuare la semina o quando si doveva cominciare a raccogliere le messi prima che il Sole le disseccasse o preparare il cibo e le pelli per l’inverno, unite al fascino che il cielo notturno ha sempre esercitato sull’uomo, fecero volgere al cielo gli sguardi dei sacerdoti ministri del culto, i druidi (dall’irlandese druid, derivato dal sanscrito veda, conoscere, vedere, e forse dal gallico dervo, quercia, dunque probabilmente “saggio dei boschi”).
Ed essi lo fecero con scrupolosa precisione, osservando i movimenti del Sole e della Luna per formulare calendari sempre più precisi che potessero anche prevedere le eclissi di Luna, e memorizzando le posizioni delle stelle ed i moti dei pianeti. Racconta inoltre Cesare nei “Commentarii” che i druidi addestravano gli aspiranti sacerdoti sulle questioni relative al moto degli astri, ma allo stesso tempo annota: «...essi (i druidi) non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli affari, sia pubblici che privati usano l’alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui essi evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché i loro discepoli non le studino con minore diligenza...».
Nella “Refutatio omnium haeresium” Ippolito afferma poi che: «I druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica...e i Celti ripongono fiducia nei loro druidi come veggenti e come profeti perché essi possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e all’aritmetica dei Pitagorici».
Se dunque da un lato era elevato il livello di conoscenza dei druidi anche in campo astronomico, come Cesare poté valutare da studioso attento e amante di tale disciplina quale era, e matematico (la conoscenza della matematica dei Pitagorici greci fu acquisita in seguito ai frequenti scambi commerciali con il mondo greco dal VII - VI secolo a. C. in poi), d’altra parte essi non tramandarono le conclusioni delle loro osservazioni attraverso alcuna documentazione scritta, per i motivi chiaramente illustrati da Cesare, e questo impedisce di conoscere con esattezza i risultati delle loro osservazioni e le loro idee sulla struttura del cosmo. Allo stato attuale se ne hanno soltanto poche e frammentarie testimonianze.
La mitologia celtica raccolta nei poemi di Taliesin, un leggendario Omero britannico, contiene la descrizione di una rudimentale cosmogonia (nota in gran parte per la sua traduzione in latino da parte del monaco Isidoro di Siviglia del VI - VII secolo d. C.) nella quale il cielo viene suddiviso in tre parti: un cielo stellare abitato da angeli, un cielo aereo abitato da demoni e posto al di sotto delle stelle ma al di sopra della Luna, ed un cielo sublunare abitato da falsi demoni.
Una prova particolare del fascino esercitato dal cielo sui Celti è la presenza nelle effigie riportate sulle monete celtiche coniate nel I secolo a. C. di immagini di stelle talvolta contornate da raggi per sottolinearne la luminosità, talvolta rappresentate con una “coda” stilizzata ad indicare il passaggio di una cometa, come ad esempio nel caso dello statere d’oro dell’epoca del governo locale di Tincommius, coniato tra il 20 a. C. e il 5 d. C., nel quale sono raffigurati un cavallo ed un cavaliere sormontati da una luminosa stella alta nel cielo, che potrebbe essere una cometa (nel 12 a. C. passò vicino alla Terra la cometa di Halley, che fu inizialmente visibile nella costellazione del Cane minore alla fine di Agosto di quell’anno e scomparve dal cielo visibile circa due mesi dopo essersi portata nella costellazione dello Scorpione), o una nova comparsa, secondo gli annali cinesi nell’anno 10 a. C. in prossimità di Arcturus, la luminosa stella della costellazione di Bootes che alle nostre latitudini culmina quasi allo zenit.
Un’altra moneta ritrovata in Bretagna mostra su di una faccia una stella provvista di una coda stilizzata e posta in mezzo a due stelle e raffigura probabilmente la cometa che transitò nel luglio del 69 a. C. tra a e g Virginis (Spica e Heze). Un’altra ancora ha impresse su di una faccia quattro stelle disposte a formare un quadrilatero circondato da una spirale; la sua datazione ha consentito di identificare il fenomeno raffigurato in un eccezionale allineamento di pianeti che si verificò nella costellazione del Leone, vicino a Regolo, e che coinvolse nel 26 a. C. Venere, Giove, Saturno, Marte e per pochi giorni anche la Luna.
L’interesse dei Celti per i fenomeni celesti fu comunque principalmente orientato verso i moti del Sole e della Luna, e finalizzato alla formulazione del calendario, da intendersi come strumento necessario a scandire i tempi dei mutamenti naturali ciclici e a fissare, attraverso la collocazione delle festività, le scadenze periodiche che gli uomini dovevano rispettare per vincere la loro dura lotta per la sopravvivenza.
A testimonianza del loro livello di conoscenza a tale riguardo, resta, unico esempio scritto, una serie di frammenti di una tavola di bronzo, rinvenuti nel 1897 a Coligny, nella regione dell’Ain (l’antica terra dei Galli Ambarri) nel Sud della Francia, e fatti risalire al II secolo d. C..

<bil calendario di Coligny
Sull’antica tavola di bronzo erano annotati in sequenza i giorni dell’anno suddivisi in 12 mesi così ripartiti: 7 mesi da 30 giorni e 5 da 29, per un totale di 355 giorni ed una media di 29,58 giorni per mese.
Questa suddivisione si deve al fatto che il calendario celtico tradizionale era un calendario lunare, cioè assumeva come suddivisione fondamentale il ciclo delle fasi lunari o “mese sinodico” (ricordiamo che la sua durata dipende dalla velocità della Terra intorno al Sole, e il fatto che quest’ultima varia compatibilmente alla seconda legge di Keplero provoca la sua variazione da una durata minima di 28 giorni a un massimo di 31, con una durata media di 29,53); i suoi 12 mesi, i cui nomi erano Samonios (30 giorni a partire dalla prima metà di Novembre), Dumannios (29), Rivros (30), Anagantios (29), Ogronios (30), Cutios (30), Giamonios (29), Simivisonios (30), Equos (30), Elembiuos (29), Edrinios (30), Cantlos (29), venivano fatti iniziare al primo quarto di Luna ed erano suddivisi non in settimane, come per noi, ma ciascuno in due parti, di cui la prima era di 15 giorni e la seconda, che aveva inizio all’ultimo quarto dello stesso ciclo lunare, aveva una durata di 14 o 15 giorni.
Nel calendario di Coligny le due quindicine sono separate dalla dicitura Atenoux, cioè “luna nuova” o “ritorno al buio” o “rinnovamento” (in quanto, mentre la prima conteneva la fase di luna piena, nella seconda era inclusa quella di luna nuova). I mesi di 30 giorni era ritenuti Mat, o fortunati, quelli di 29 giorni erano Anmat o Ambilis, ovvero infausti.
La differenza di durata tra l’anno lunare celtico e l’anno solare di 365,2 giorni determinava la necessità di un adeguamento del calendario, che veniva effettuato aggiungendo un mese ulteriore di 30 giorni ogni 30 mesi sinodici lunari. Ad una approfondita analisi questa scelta pare grossolanamente approssimativa anche tenendo conto dell’aggiunta resa necessaria dal fatto che i mesi del calendario celtico non iniziavano con la luna nuova, ma con la luna al primo quarto (sarebbe stato meglio se mai, aggiungere un mese “corto” di 29 giorni ogni 30 lunazioni); tuttavia è difficile pensare che i druidi, noti come profondi conoscitori della matematica pitagorica e dell’astronomia, avessero compiuto un simile errore.
Una possibile via d’uscita da questa questione ci viene allora fornita da una frase della “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio, in cui si fa riferimento all’antichissimo rituale celtico della raccolta del vischio: «È poi questo (il vischio) molto raro a trovarsi e una volta trovato è raccolto con gran pompa religiosa e innanzi tutto al sesto giorno della Luna, che segna per questi gli inizi dei mesi, degli anni e dei secoli, che durano trenta anni, giorno scelto perché la Luna ha già tutte le sue forze senza essere a metà del suo corso».
Il sesto giorno della Luna corrisponde all’avvento della fase di primo quarto, scelta come inizio dei mesi, degli anni e di un ciclo più lungo della durata di 30 anni, che Plinio chiama saeculum.
Intorno alla scelta di questo periodo si discute ancora; di certo se non vi fossero altre correzioni oltre a quelle già citate, alla fine di un “secolo” celtico lo sfasamento tra il calendario lunare e il ciclo solare sarebbe notevole, e del resto uno dei principali problemi del calendario celtico era lo scorrimento progressivo dei mesi rispetto alle stagioni. Però il fatto che nel calendario di Coligny accanto a tutti i giorni dei mesi aggiuntivi sia annotato il nome di uno dei 12 mesi nella loro esatta successione, e che vi sia anche una fila di fori in cui potevano essere inserite delle asticelle, utili probabilmente ad eseguire un conteggio, ci dice che forse quel lungo periodo era stato scelto perché al suo interno con una opportuna strategia computazionale, peraltro ancora ignota, si potesse ricondurre l’inizio dell’anno celtico all’inizio del ciclo solare.
Ma c’è è dell’altro: la Luna era, dunque, astro di primaria importanza per i Celti (molti popoli di origine celtica festeggiavano divinità particolari oppure si riunivano per prendere decisioni importanti durante il plenilunio). Perciò i druidi si dedicarono anche allo studio del fenomeno delle eclissi e alla sua periodicità (in particolare alla determinazione della periodicità delle eclissi, le uniche che allora si potessero studiare compiutamente, dal momento che le eclissi di Sole possono essere viste soltanto in una parte ridotta della superficie terrestre).
Oggi sappiamo che esistono 4 tipi di periodicità delle eclissi di luna (ad ogni periodo si ripete un tipo particolare di sequenza cronologica di eclissi). Uno di questi 4 periodi, l’Inex, ha la durata di 358 lunazioni, circa 30 anni celtici: esso potrebbe essere il saeculum druidico.

Le festività
Le principali festività celtiche, oltre a fungere da scadenze per le attività umane, erano anche occasione di espressione creativa per quel popolo così ricco di fantasia.
L’anno celtico tradizionale era suddiviso a croce da quattro festività fondamentali: - l’irlandese Samhain o il gallico Trinvxtion Samoni Sindivos (da cui il nome del primo mese dell’anno) si collocava in un periodo variabile a cavallo tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre e segnava l’inizio dell’anno Celtico. Esso segnava il periodo in cui, conclusa la semina, occorreva raccogliere le provviste per il duro inverno, valutarne la quantità e decidere quanto bestiame si doveva uccidere, perché il cibo non sarebbe bastato per tutti i capi. Le carne del bestiame ucciso dovevano essere predisposte alla conservazione mediante salatura e all’utilizzazione durante l’inverno. Da ciò deriva la pratica in uso ancora presso le nostre campagne di uccidere il maiale e di preparare insaccati salandone le carni nel mese di Novembre.
Il Samhain veniva celebrato a partire dal tramonto (il giorno per i Celti dell’Europa nordoccidentale cominciava con la notte e finiva con il tramonto seguente) con l’accensione di fuochi propiziatori; in Irlanda essi erano dedicati a Cailleach, la multiforme strega della mitologia irlandese, dominatrice dell’inverno. Il Samhain era anche l’occasione per le tribù di riunirsi intorno al fuoco ove la fantasia creava storie fantastiche di eroi e di creature soprannaturali. Nella mitologia popolare al tramonto del Samhain le porte dell’aldilà, il Sidhe, si aprivano e strane creature si affacciavano sui poggi, basse colline del paesaggio naturale britannico avvolte nella nebbia; si narrava anche che esse talvolta avessero assunto meravigliose forme femminili (le banshees o “donne del Sidhe”) e si fossero accoppiate con uomini mortali generando stirpi di eroi.
L’Oimelc o Imbolic o Imbolc o anche Candlemas (da cui è derivato il termine che qualifica la festa tradizionale padana della “Candelora”), consacrata in Irlanda forse alla dea Brigit, dea della sapienza figlia della Grande Madre e di Dagda, dio saggio e buono, era la festa in cui si stabiliva un bilancio dell’inverno appena trascorso e si cominciava ad organizzare la ripresa delle attività umane. Nella scarsa mitologia celtica al riguardo, essa rappresenta il cedimento delle forze dell’inverno davanti all’avanzare della primavera con le sue tipiche manifestazioni naturali (in particolare piogge e temporali che accelerano il disgelo). Viene celebrata in un periodo collocato a cavallo tra la fine di Gennaio e l’inizio di Febbraio.
Il Beltain o Beltane, celebrato nei primi giorni di Maggio, è invece la Festa del dio Belenos, dio virtuoso, al cui splendore e alla cui forza sono dedicati i falò rituali che vengono accesi al tramonto, all’inizio del giorno della festa. Essi non sono più, dunque, il tentativo timoroso di placare una divinità temibile, ma manifestazioni celebrative della forza di un dio benevolo e amato. Il Beltain segna l’inizio del raccolto, quindi di un periodo non solo di duro lavoro, ma anche di buon clima e di abbondanza e prosperità. La tradizione celtica vuole che anche allora, come per il Samhain, si aprano le porte del Sidhe e ne escano creature incantate, ma le leggende del Beltain narrano delle vittorie degli eroi sugli incantesimi.
Nel mese di Agosto (in un periodo lievemente antecedente il nostro Ferragosto) viene celebrato il Lughnasad, una festa che saluta la fine del lavoro nei campi e segna l’inizio di un periodo destinato al riposo, alle gare di abilità o atletiche, ma anche alle guerre. E’ il periodo dei corteggiamenti e dei matrimoni, ma anche quello in cui vengono risolti i contenziosi giudiziari in sospeso.
Il Lughnasad è la festa dedicata al dio Lugh, lo “splendente”, o “colui che è abile in tutte le arti” (in un episodio della mitologia irlandese egli si proclama, con molta modestia, «un fabbro, un campione, un arpista, un eroe, un poeta, uno storico, un medico, un mago»).

I Vichinghi popolo di mare
Ancora più a Nord, nelle fredde terre della Danimarca e della penisola scandinava, genti indurite dal gelo, costrette a vivere tra un entroterra ghiacciato e montuoso (come per i Norvegesi) e il mare che filtrava entro strette e profonde insenature (i “fiordi”), in terre inospitali e prive di risorse, o continuamente minacciati da bellicosi nemici confinanti (come accadde per i Danesi), videro proprio in mezzo alle gelide e scure acque dei mari del Nord aprirsi per loro la strada verso la sopravvivenza; e nel VII - VIII secolo d. C. questi uomini cominciarono a seguirla sfidando il mare, disposti a qualsiasi sacrificio e animati da una profonda fiducia nella propria forza. In quei viaggi, che si svolgevano nell’unico periodo in cui era possibile la navigazione, l’estate, molti si persero inghiottiti dall’oceano con i loro scafi di legno, di cui divennero abilissimi costruttori (si pensi alle loro navi da guerra, gli skeid, noti anche come drakkar, imbarcazioni agili e robuste insieme), ma altri giunsero a destinazione. Dove questo accadde, come ad esempio nelle coste orientali dell’Inghilterra e della Scozia, la lotta per la sopravvivenza si trasformò spesso in crudele guerra di conquista, e di lì in violenza, saccheggio e sopraffazione senza alcun rispetto per i vinti.
Accadde però anche che nei loro viaggi essi si spinsero a settentrione in regioni quasi completamente disabitate, fondando in esse crescenti insediamenti di coloni, come avvenne in Islanda e perfino nella remota Groenlandia (la “terra verde”, così chiamata dai primi Vichinghi che la raggiunsero per la prima volta d’estate, quando il suo suolo era reso verde dalle praterie erbose che lo ricoprivano). E di là un giorno le forti correnti atlantiche spinsero la piccola flotta del normanno Bjarni nel 986 d. C., che vi aveva cercato invano un approdo, verso occidente per alcuni giorni, finché egli non avvistò in direzione del tramonto una striscia scura all’orizzonte: così mezzo millennio prima di Cristoforo Colombo alcune navi vichinghe raggiunsero per caso le coste del Nuovo Continente.
Oggi però si attribuisce la prima esplorazione del nuovo continente al norvegese Leif Ericson, che intorno all’anno mille, partito dalla Groenlandia si diresse verso Sud-Ovest fino ad avvistare le coste di quella che fu definita Terra di pietre (l’isola di Terranova), e successivamente si spinse verso Sud lungo la costa sbarcando prima in una regione boscosa (l’odierna Nova Scotia) denominata Terra degli Alberi, poi sull’Isola di Nantucket al largo della punta orientale del Massachusetts, su cui crescevano spontaneamente piante di vite e per questo essa fu denominata Vinland (Terra del Vino).
A tutt’oggi l’unica traccia degli approdi Vichinghi nell’America del Nord pare essere una lapide con iscrizioni in caratteri runici trovata in una fattoria presso Kensington nel Minnesota, sulla cui autenticità si discusse a lungo, convenendo che la posizione del ritrovamento e la precisione con cui erano stati usati il linguaggio e la scrittura antichi, erano tali da rendere assai meno probabile che qualcuno nel XIX secolo avesse potuto realizzare un falso simile, del fatto che i Vichinghi si fossero spinti fin là nelle loro migrazioni.

I Vichinghi e l’osservazione del cielo
Non si hanno testimonianze scritte di un ipotetico interesse dei Vichinghi, popolo dedito, per la sua stessa storia, alle questioni di carattere pratico assai più che alle discipline speculative. Tuttavia si può ben immaginare come essi, essendo navigatori, e non essendo dotati di bussola, avessero necessità di orientarsi nel loro viaggiare per mare; a tal fine occorreva che essi conoscessero i moti del Sole e sapessero dedurre dalla sua posizione le direzioni dei punti cardinali e la latitudine, mentre non ci si può aspettare da essi una altrettanto buona conoscenza del cielo stellato in quanto, come si è detto, essi viaggiavano d’Estate e si sa che in tale stagione alle elevate latitudini le ore di luce superano di molto quelle di oscurità (al Polo Nord si hanno sei mesi continui di luce), e la notte di fatto è un lungo crepuscolo in quanto il Sole non scende di molto al di sotto dell’orizzonte. Si può comunque ipotizzare che essi utilizzassero, quando le condizioni del cielo notturno lo permettevano, anche l’altezza della stella polare sull’orizzonte per dedurre la latitudine. Si ritiene anche che essi molto probabilmente, per dedurre la posizione del Sole anche quando era celato alla vista da nubi o dalla nebbia, il che accadeva non di rado, osservassero il cielo attraverso frammenti di un minerale, la calcite o Spato d’Islanda, che ha particolari proprietà ottiche di polarizzazione della luce.

La Cosmogonia e l’“Edda” in prosa
L’immagine del Cosmo che la fantasia dei Vichinghi costruì, non poteva certo essere un modello dettagliato, costruito su basi matematiche o sostenuto da un solida e razionale filosofia della natura; essi erano un popolo semplice, spesso impegnato ad affrontare una natura crudele che gli sottoponeva problemi pratici e tecnici. La cosmologia norrena è contenuta nella mitologia tradizionale, gran parte della quale fu raccolta e “tessuta” dal poeta islandese del XIII secolo Snorri Sturlusson, in un poema, l’“Edda” (genitivo di Oddi, nome della località del Sud-Ovest dell’Islanda, in cui egli visse. In particolare nella sua versione in prosa (l’“Edda prosastica”), viene narrata la storia dell’origine del mondo, una storia complessa, composta di un succedersi di eventi accostati l’uno all’altro come tessere di un mosaico e quasi sempre privi di una giustificazione logica, come se la parola “perché?” non esistesse nel vocabolario vichingo.
Agli inizi c’era l’abisso, il Ginnungagap, “l’abisso degli abissi”, esso era composto di una Casa della Nebbia, o Niflheim, e di una casa dei Distruttori, o Muspellheim, contrapposte in quanto l’una era gelida e l’altra (Muspellheim) era infuocata e fiammeggiava lanciando scintille intorno. Al centro di Niflheim c’era la sorgente di tutte le acque, e da una delle correnti che uscivano da essa schizzarono alcuni frammenti di ghiaccio che si unirono formando Ymir, il capostipite della razza dei Giganti di Ghiaccio, da lui stesso generati per partenogenesi. Ymir era nutrito da Audhumla, una vacca sacra, che a sua volta si nutriva della brina sulle rocce, ed un giorno da questa spuntarono dei fili d’erba che a poco a poco, mentre Audhumla si cibava del ghiaccio soprastante, si rivelarono essere i capelli di un uomo, il primo uomo, Buri. Egli poi si accoppiò (non si sa con chi) e generò Bor, che a sua volta sposò una gigantessa e generò tre figli: Odino, Vili e Ve. Essi uccisero Ymir colpendolo alla testa; Ymir morendo cadde e perse tanto sangue da annegare tutta la progenie dei Giganti di Ghiaccio, con la sola eccezione di uno, Bergelmir, che si salvò su di una “arca” (si pensi all’Arca del diluvio universale). Il cadavere di Ymir servì ai tre fratelli suoi uccisori per creare il mondo: la sua carne formò la terra, le sue ossa le rocce, il suo sangue i mari e i laghi. Infine i tre figli di Bor «presero il fuoco di Muspellheim e le sue faville e li lanciarono in cielo a formare il Sole, la Luna e le stelle, alcune delle quali fisse ed altre in moto rispetto alle prime...».
 
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